Come passare 15 giorni con un robot umanoide


Viste le difficoltà per gli umani di viaggiare in tempi di pandemia, il Goethe Institut ha deciso di far viaggiare Gaia, un robot umanoide NAO, con l’obiettivo di scoprire come le sue competenze potessero aumentare in quantità e tipologia grazie all’incontro con umani differenti. In primavera ha lanciato un bando per selezionare i vari collettivi che potessero ospitarla e uno di questi è stato KINlab (di cui ho accennato qui). Non ho ancora parlato in modo approfondito dell’Associazione KIN su questo blog perchè si tratta di un progetto collaborativo in Piazza Segesta che sto portando avanti con Serpica Naro in complicità con Landscape Choreography e QCode e che per cause di forza maggiore sta subendo dei ritardi nell’attivare lo spazio fisico. Questo non ci ha fermato dal portare avanti progetti in linea con le sperimentazioni che vorremmo fare in questo nuovo contesto. Una di queste è il “giocare” con le tecnologie per conoscerle meglio e capirne i confini.

Per documentare la residenza di Gaia, in cui ho lavorato con Giorgio Dimitri, ho realizzato alcune clip video ora pubblicate in due piccoli montaggi e una intervista incollata qui di seguito.

Il “making of” racconta i vari trial&error dell’esplorazione:

Il secondo video invece è quello ufficiale con un montato realizzato dal Goethe Institut:

A metà percorso abbiamo avuto una chiacchierata con Lucia Pappalardo che ha pubblicato un’intervista sul sito del Goethe e di cui qui sotto trovate la versione ampliata e completa:


Il collettivo milanese Kin ci racconta come stanno insegnando alla robot umanoide del Goethe-Institut a sembrare a suo agio nella Zona 7 di Milano, tra canzoni Trap e sguardi empatici da rubacuori. Il tour italiano di GAIA, il Robots in Residence del Goethe-Institut, è arrivato alla sua seconda tappa italiana. GAIA si è spostata dalla capitale, dove è stata accolta e “istruita” dal team SPQR della Sapienza Università di Roma a Milano. A ospitarla, nel variegato quartiere San Siro è stata l’associazione Kin, di cui fa parte Zoe Romano, una filosofa esperta di progetti tecnologici, che ha lavorato insieme a Giorgio Dimitri, sviluppatore e progettista specializzato in free software. Tra gli obiettivi di Kin, che da qualche mese si è vista assegnare proprio uno spazio in zona, c’è proprio quello di raccontare l’evoluzione del quartiere che li ospita, dove coabitano case popolari e una parte residenziale agiata, nella zona 7 di Milano, dove sorge lo storico stadio Giuseppe Meazza, ribattezzato proprio col nome del quartiere, San Siro. Il loro approccio interdisciplinare mette insieme processi di attivazione culturale urbana e tecnologie digitali applicate al cambiamento sociale

Che cosa sta imparando GAIA a Milano?
Vogliamo provare a stimolare un dialogo con i passanti. La sede di Kin si trova in un edificio circolare molto originale, dotato di ampie finestre che danno all’esterno e di fronte ci sono spazi verdi e anche alcune panchine. Ora stiamo programmando dei riconoscimenti vocali e dei movimenti che GAIA farà, prima per attirare l’attenzione e poi per provare a interagire.
Vogliamo vedere che reazioni o domande spontanee suscita alle persone che passano per la strada. E che non sono il target classico con cui i robot spesso sono in contatto. Non siamo in Giappone o in Cina dove i robot sono già nei negozi e ti dicono buongiorno quando entri a comprare qualche cosa.


E questo rientra nel vostro studio sull’eterogeneità di San Siro?
Esatto. Tra le cose più interessanti che abbiamo letto quando abbiamo iniziato a interessarci di GAIA e capirne le potenzialità c’è la difficoltà di creare dei robot che siano culturalmente competenti. Un conto è prendere un robot e istruirlo solo interagendo con una persona di 25 anni italiana e background classico di uno sviluppatore. Un altro è prendere un robot e metterlo nella casa di un giapponese ottantenne che per tradizione culturale si aspetta di sentirsi dare del lei. Ci sono dei comportamenti che sono culturalmente accettabili e altri che non sono culturalmente accettabili. Dipende dai contesti. Se già nella fase di programmazione abbiamo una omogeneità di tipi umani, avremo dei robot che sanno comportarsi solo in un contesto omogeneo e di conseguenza più facilmente discriminante.

Cosa intendete per “culturalmente competente”?
Per sentirsi a proprio agio con un robot la difficoltà è di fare in modo che il robot sia accettato tra gli umani, e uno dei modi è creando empatia. Molto lo si fa appunto, dotando i robot di competenza culturale. Altrimenti le persone vedranno il robot sempre come un qualche cosa di distante, di estraneo e freddo. Dotare i cittadini di questa consapevolezza, ossia saper distinguere quello che è una simulazione di umanità, e invece una delle competenze da sviluppare negli umani.


In che modo GAIA sarà culturalmente competente? Che trucchi le state insegnando? Vorremmo insegnare a GAIA che noi siamo nella Zona 7. Stiamo insegnandole a cantare una strofa di un trapper della zona che racconta l’esperienza di vivere proprio qui. Vorremmo farle dire delle cose che facciano sembrare GAIA consapevole del posto in cui si trova.

Poi lavorerete anche su una fase di analisi di questo esperimento?
Vogliamo vedere cosa succede. Qual è la sensazione, qual è la reazione delle persone. Già l’abbiamo programmata per rispondere, con sguardo triste, “no, non te ne andare” quando uno dice “ciao, io vado”. L’abbiamo provato con un’amica venuta a trovarci e in lei è subito scattato un senso di empatia e infatti le ha risposto “no, sto ancora qui, sto ancora un po’”.
Se aveste la bacchetta magica che cosa augurereste a GAIA di imparare?
Auguriamo a GAIA di imparare quanto gli umani sono diversi e fantastici nella loro diversità e che quindi deve imparare ad uscire dagli schemi che noi stessi come umani ci portiamo dietro.
Perché se girerà il mondo dovrà avere a che fare con persone, culture, abitudini, percezioni, credenze diverse, e quindi se impara quello che significa tutto questo potrà diventare più culturalmente avanzata di quello che magari noi singoli umani potremo mai essere.
Però, diciamo, dovrebbe avere una coscienza…
Non serve la coscienza in questo contesto. Perché Gaia per come è adesso, impara grazie a vari programmatrici e programmatori che definiscono come farla reagire agli stimoli esterni.
Quindi per essere culturalmente avanzata, vuol dire che dovrà passare nelle mani di molte persone, ciascuna delle quali le insegnerà come interagire con tipi umani diversi e come sapersi comportare contestualmente.
Questo tipo di robot, infatti, riflettono l’umanità delle persone che li programmano e per evitare di disegnare dei pattern di comportamento che possano risultare discriminanti o escludenti, ci auguriamo che nei suoi viaggi Gaia incontri persone che siano in grado di trasmettere empatia a partire da un background e esperienze di vita differenti.

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